I Nomi di Tutte le Cose

"Ogni volta che nomini qualcosa, lo fai esistere, ne legittimi l’esistenza.

NOMINAZIONE: ATTO DIVINO CHE CONSISTE NEL DARE NOME ALLE COSE E, QUINDI, NEL POTERE DI CONTROLLARLE.

A un certo punto Dio conferisce all’essere umano il potere di nominare le cose (hai presente Adamo nel giardino?).

Nominare una cosa, nel senso di attribuire un nome, è un atto divino e magico, perché chi nomina ha il potere di controllare, definire, circoscrivere.

Ed è un atto tutto nostro, che letteralmente ci conferisce il ruolo di creatori di realtà.

Quando nel tuo corpo aumenta leggermente il battito cardiaco per uno stimolo qualsiasi, il cervello ne ricerca la causa all’esterno. Potrebbe essere paura, potrebbe essere eccitazione. Potrebbe essere rabbia, o determinazione.

Dipende tutto e solo dalla parola che scegli per definire quel battito in più. Tu hai il potere di nominare quel battito, e di creare una realtà diversa a seconda delle parole che usi.

Ogni cosa che dici, diventa.

Per questo: “È come dici, ed è per questo che così ti sembra” (è una mia citazione). Nelle tue parole c’è il tuo essere divino, ci sei tu che crei il tuo giardino" (Paolo Borzachiello, Basta Dirlo)

Nel Nome di Allah, il Compassionevole, il Miseri-cordioso

E insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose; poi li presentò agli angeli e disse: «Ditemi i nomi di costoro, se siete veritieri».

Dissero: «Gloria a Te! Noi non sappiamo se non ciò che Tu ci hai insegnato. In verità Tu sei il Sapiente, il Saggio».

Disse: «O Adamo, informali dei loro nomi». E quando li ebbe informati dei loro nomi, disse: «Non vi avevo forse detto che Io conosco l’invisibile dei cieli e della terra e ciò che mostrate e ciò che celate?». (La Lettura, Sura Al-Baqarah, La Giovenca (2), 31-33)

Questi versi mostrano che:

1. Il linguaggio e la conoscenza sono dono divino → Adamo riceve da Allah la capacità di nominare, distinguere e capire la realtà.

2. Il nome non è solo parola, ma conoscenza dell’essenza → dare il nome significa compren-dere e riconoscere l’intima realtà di una cosa.

3. L’uomo è un Rappresentante di Allah (khalīfa) grazie alla conoscenza → la sua distinzione sugli angeli non è la forza, ma la capacità di comprendere, comunicare e ricordare.


L' Arca di Noè

Il termine che la indica, nel testo ebraico, è TeBaT ed è costruito sulla radice TB, «contenere». Ma TeBaT significa anche «linguaggio».

I Maestri ebrei medievali, in particolare nella tradizione chassidica, notarono che tēvāh (תֵּבָה) significa anche “parola” in ebraico.

Ad esempio, nel Sefer HaBahir e in vari commenti chassidici si interpreta la parola “Tevāh” come parola di Dio.

Rabbi Baal Shem Tov (fondatore del chassidismo) commentava: “Entrare nella Tevāh significa entrare nella Parola, cioè nel linguaggio della Torah”.

Un articolo di Chabad.org intitolato "Costruire Parole di Luce" esplora come la parola תֵּבָה (tēvāh), tradizionalmente intesa come "arca", possa anche significare "parola".

L'autore suggerisce che quando Dio chiede a Noè di entrare nell'arca, lo sta anche invitando a "entrare nella Parola", indicando un parallelismo tra la protezione offerta dall'arca e quella fornita dalla parola divina.

Questo insegnamento sottolinea l'importanza di utilizzare le parole in modo edificante e positivo.


Le istruzioni di 'Elohiym

"Ed ’Elohiym disse a Noaḥ: «Viene la fine di ogni forma corporea, al Mio Cospetto, perché la terra si è colmata di una vampa da ogni dove, da tutta la sua superficie: ed ecco, farò che la terra si abbassi del tutto.

Tu ti farai una TeBaT che si dirami come la vite, farai branche a questa TeBaT, le connetterai, da dentro e da fuori, in una connessione.

E così la farai: trecento ’aMaH sarà la lunghezza della TeBaT, cinquanta ’aMaH la sua larghezza, e trenta ’aMaH la sua altezza".
(La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6,13-15)

Leggendo la Torah dall'inizio fino a questo punto, si evince che proprio qui ’Elohiym, per la prima volta parla di Sé al singolare; dice «al Mio Cospetto». Ed è anche la prima volta che ’Elohiym si rivolge all’uomo al singolare, con un «tu».

Ciò deve estendersi anche a chi legge. In queste pagine ogni «noi» rimane fuori: vi si entra da soli.

Il maggior ostacolo alla comprensione della storia di Noaḥ – e lo toglieremo subito – è dato dalla potente suggestione che le versioni consuete di questo brano hanno esercitato sulla mentalità occidentale:

*Fatti un’arca di legno di pino; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume di dentro e di fuori".

«Arca» è una parola di origine latina, che significa «scrigno», «cassapanca»; è l’esatta traduzione della parola kibōtós, che nella versione greca era la traduzione sbagliata di TeBaT.

Da quell’«arca»-kibōtós deriva l’idea a noi tanto familiare dell’«Arca di Noè»: barca grossa, nera di bitume, costruita in modo da ospitare molti animali e resistere a giganteschi tsunami.

Dimentichiamola, e osserviamo il testo con attenzione.

TeBaT vuol dire anche "linguaggio" ed ’Elohiym ha fatto esistere tutto l’universo mediante le parole: un linguaggio può contenere in sé un universo intero, e dargli forma.

Ora, ’Elohiym vuole che Noaḥ faccia questo linguaggio-contenitore di un universo nuovo, e si salvi in esso. E ne illustra il progetto.

Tu farai.

Gli affida questo verbo che, finora, era appartenuto soltanto alla sfera divina: detto da ’Elohiym, «tu farai» significa «tu comincerai a far evolvere».

E ciò che deve evolversi ha, in ebraico, lo stesso nome del recipiente di papiro in cui il piccolo Mosè venne affidato alle acque del Nilo: TeBaT – cioè «contenitore» e «linguaggio».

Tu ti farai una TeBaT che si dirami come la vite.

(La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6, 14).

Non si tratta solo di abbattere pinete.

Le parole ebraiche che nelle versioni consuete vengono tradotte come «legno di pino» sono ‘aZeY GoFeR.

La prima è il plurale di ‘eZ, «diramarsi».

La seconda non esiste in ebraico corrente; esiste invece GeFeN, che è la «pianta di vite». La radice GF indica l’«abbracciare», l’«avvolgere»; GeFeN dà l’immagine della vite come della pianta che «si avvolge (GF) a qualcosa (N)»; GoFeR è quello stesso avvolgersi (GF) che procede (R) ovunque sia.

La TeBaT dovrà dunque avvolgere in questo modo tutto ciò che esiste. Sarà un linguaggio che aderisce alla realtà, che la comprende nel senso più stretto del termine.

Le versioni consuete non potevano accettarlo per varie ragioni: innanzitutto, una volta focalizzatesi sull’idea che Noè costruì una gigantesca cassa galleggiante, appariva assurdo che come materiale da costruzione avesse usato il legno di vite; quante vigne avrebbe dovuto sradicare?

In seguito, dopo il Diluvio, Mosè narrerà che Noaḥ «cominciò a piantare le vigne»: (La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 9,20) ma ciò non aprì gli occhi dei biblisti.

Non fu loro d’aiuto nemmeno Gesù, quando spiegò che «l’io è la vera vite»: (La Scrittura, Buona Notizia secondo Giovanni, 15, 1-7) anche lì, nessuno si accorse che stava commentando la Genesi.

Gesù intendeva precisare che il materiale per costruire la TeBaT va tratto dall’io stesso: l’io, con essa, deve cioè accorgersi della propria capacità di aderire alla realtà, di non temerla.

Nel racconto di Mosè ciò era già implicito nel «tu farai»; ma Gesù tenne a chiarirlo bene. 

Le «branche» 

Perché questa lingua abbracci la realtà – prosegue ’Elohiym – farai branche a questa TeBaT.  (La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6,14)

Sibaldi traduce «branche» la parola QiNiYM, che viene dalla stessa radice di QaYN: QN, «impossessarsi», «dominare».

Nella Qabbalah, i QiNiYM simboleggiano le lettere dell’alfabeto ebraico: sappiamo che nel geroglifico ciascuna lettera esprime e domina una struttura della mente e di conseguenza della realtà.

Nella Qabbalah, i Qiniym sono propriamente i ventidue «sentieri» che collegano tra loro le Sefirot dell’«Albero delle vite»; e ciascun «sentiero» corrisponde a una lettera dell’alfabeto ebraico.

Con le nostre lingue non geroglifiche, per chi di noi volesse costruire una TeBaT, questa istruzione riguardo alle «branche» può valere soltanto in rapporto ai concetti.

Sarà come dire: ciascuno dei concetti che usi nella tua TeBaT avvinghi qualcosa di reale. Non usare parole che bastino a se stesse, che salgano come pioppi, o pini, alte sopra la terra. Non ti salveresti se no, nel Diluvio che viene.

La sintassi della TeBaT

Poi, continua ’Elohiym, occorre «connettere» (KFRT in ebraico) tutte le branche di questa lingua: le connetterai, da dentro e da fuori, in una connessione.

«Connessione», nel testo, è KoFeR; oggi noi diremmo che le «branche» della lingua devono poter formare un sistema. E le loro connessioni, la loro sintassi, devono mostrarsi efficaci sia «da dentro» sia «da fuori»: devono cioè esprimere sia i pensieri, i sentimenti, le intuizioni, sia le sensazioni che si ricevono dal mondo esterno.

Le versioni consuete, focalizzati solo sull'interpretazione letterale di primo livello, nella loro idea marinara dell’arca, traducono: la spalmerai di bitume dentro e fuori.

È perché, in ebraico corrente, kofer finì per indicare il catrame e il bitume, quando – qualche secolo dopo Mosè – gli ebrei impararono a distillarli dal carbon fossile e dal greggio, e a utilizzarli come impermeabi-lizzanti. Ma ciò non riguarda la lettura profonda della Genesi.

La radice di KFRT e KoFeR è KF – e compare nei verbi ebraici KFWT, «legare», KFYF, «intrecciare», KFN, «flettere».

Certo, coordinare i concetti di una nostra lingua interiore in un sistema può apparire come un’impresa molto ambiziosa.

In pratica, si tratta di constatare in quale misura una qualsiasi frase sia aderente alla realtà, e la avvinghi, e ne esprima coerentemente qualcosa «da dentro» e «da fuori».

Le dimensioni

Poi ’Elohiym indica il volume della TeBaT. trecento ’aMaH la sua lunghezza, cinquanta ’aMaH la sua larghezza, e trenta ’aMaH la sua altezza. (La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6,15)

In seguito il termine ’aMaH assunse, in ebraico corrente, il senso di «cubito», e una ’amah equivalse a circa 44 centimetri – un po’ meno del cubito egizio, il mḥ, che equivaleva a circa 52 centimetri. I biblisti ne deducono ancor oggi che le dimensioni dell’Arca fossero 130 × 22 × 13 metri, cioè meno d’un terzo di quelle del Duomo di Milano.

Ma ciò che si descrive qui non è solo una misurazione.

La radice ’M in geroglifico significa innanzitutto: «matrice», e ’aMaH significa, in geroglifico: «matrice di ciò che ancora non si vede (H)».

È insomma ciò che genera quella lunghezza, larghezza e altezza.

Quanto ai numeri, in ebraico ciascun numero corrispondeva a una lettera e al suo significato geroglifico; quando nella Genesi ci troviamo dinanzi a una cifra, occorre dunque scoprire se ciò che essa esprime sia una quantità, oppure il significato della lettera che a quella cifra corrispondeva. Qui è chiaramente quest’ultimo a prevalere.

Il numero 300 era la lettera Š, il segno del conoscere.

Il numero 50, la lettera N, il segno delle cose concrete.

Il numero 30, la L, il segno del crescere, del giungere oltre.

E ne risulta una formula perfetta per la TeBaT: «La conoscenza delle cose concrete conduce oltre».

Le dimensioni della TeBaT configurano il suo scopo, il suo criterio, il suo effetto.

Così, il senso diventa:

La matrice della sua lunghezza è la conoscenza.

Cioè, questa TeBaT durerà nel tempo finché permetterà di conoscere;

e la matrice della sua larghezza è la concretezza,

cioè, questa TeBaT si estenderà, nel descrivere i fenomeni, nell’avvinghiarli come la vite, finché sarà aderente a ciò che davvero esiste;

la matrice della sua altezza è il suo condurre oltre,

cioè, questa TeBaT giunge più in alto delle altre lingue, e vale dunque la pena di costruirla, solo se conduce più in là di ciò-che-c’è-già. Se no, è solamente un dialetto in più.

La TeBaH

Poi ’Elohiym introduce un altro termine, in questa sua linguistica: TeBaH, invece di TeBaT.

«Farai giungere la luce alla TeBaH.»
(Genesi 6,16)

TeBaH sta a TeBaT come l’’aDaMaH (ovvero ciò che la mente non conosce ancora) sta all’’aDaMaT (ovvero a tutto ciò che la mente può conoscere) .

TeBaT – con quella T finale, che indica il compimento – è la nuova lingua in quanto sistema complessivo.

TeBaH – con la H, che indica ciò che è ancora invisibile e l’energia vitale – sono le dinamiche della nuova lingua: il plasmarsi delle sue parole, delle sue norme grammaticali, delle sue forme sintattiche.

Vi è qui l’anticipazione di una teoria scientifica recente: il concetto di TeBaH meraviglierebbe i teorici della grammatica generativa.

Secondo tale teoria, ogni lingua ha alla sua base una serie di algoritmi: un certo numero di schemi operativi, in base ai quali si produce la serie infinita delle combinazioni sintattiche corrette (in termini specialistici: well-formed expressions) che costituiscono la lingua parlata e scritta.

Secondo tale grammatica, conoscere una lingua significa essersi impossessati di quegli algoritmi – consapevolmente, quando impariamo da adulti una lingua straniera, o inconsapevolmente, imparandola da bambini come lingua madre – e saperli usare.

La TeBaT di cui si parla qui sono quegli algoritmi. La TeBaH è la loro generatività, la loro applicazione. A questa si tratta ora di «far giungere la luce».

Quanto alla nuova «lingua» del pensiero che ognuno di noi potrebbe cominciare a costruire, questo principio generativo introdotto significa:

«Ti accorgerai che questa tua lingua è viva. Non sarà soltanto un codice. Avrà una sua energia, un suo carattere, una sua personalità che ti guiderà, mentre le darai forma», e subito dopo ’Elohiym spiega come e da dove giunga tale energia.

La Luce dal Futuro

«Farai giungere la luce alla Tebah, dalla matrice dell’ampliarsi di essa, dall’alto, e farai l’apertura della Tebah di lato, ed estenderai le sue basi, a due e a tre. La farai.» (La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6,16)

Dall’alto: lì è la «matrice» (’aMaH) dell’«ampliar-si della TeBaH» (TeBaL). E «in alto» in ebraico è ’aL, che significa «ciò che è oltre», il futuro.

Ciò pone una netta differenza tra la Tebat-Tebah, e il modo in cui sono solitamente intesi i processi di formazione delle lingue.

In Occidente appare ovvio, ragionevole e dimostrabile che i significati che una lingua può esprimere, e di conseguenza i pensieri che in una qualsiasi lingua si possono formare, derivino dal passato (ovvero da stadi precedenti della lingua, o da contatti con altre lingue) e dall’osservazione della realtà esistente. I teorici della grammatica generativa ritengono inoltre che gli algoritmi delle lingue siano determinati anche da strutture innate nella mente umana, cioè da strutture al tempo stesso ereditate dal passato e presenti negli individui.

Invece, qui si descrive le dinamiche di una lingua in cui la «luce» e l’«ampliarsi» proven-gono da oltre, dal ’aL, da ciò che non è ancora cominciato a esistere.

In questo modo, l’immagine che attraverso tale nuova lingua si ha della realtà, è sempre in fase nascente: è nel Divenire, in ’Elohiym.

Attraverso la Tebah, insomma, gli individui potranno non soltanto parlare con il Dio creatore, ma farlo parlare nei loro discorsi e nei loro pensieri.

Per noi ciò viene a significare, in pratica, che i concetti passati non dovranno determinare i concetti della nostra nuova «lingua» del pensiero.

Ovvero: non è utile che, per trasformare in branca e connettere il concetto di «amore», noi lo coordiniamo a ciò che se ne può trovare nella filosofia e nella letteratura di tutti i tempi. Per chiarirlo, occorre piuttosto domandarsi: «Che cos’è amore, per me?» E cercare o aspettare la risposta in noi. All’inizio si può avere l’impressione che tale risposta, in noi, non ci sia. Molto bene, se è così. Vuol dire che la ricerca può davvero cominciare, e tutto ciò che in essa si troverà di utile proverrà dal ’aL, da ciò che è oltre.

E così per ogni altro nostro concetto.

’Elohiym precisa poi che «l’apertura della Tebah» dovrà trovarsi «di lato».

In ebraico, «lato» è qui ZiDaH; in geroglifico è:

prendere direzioni (ZD)

in ciò che è ancora invisibile (H).

E naturalmente, far sì che diventi via via visibile. Dunque questa lingua è una costante rivelazione che si immette nel pensiero e nella realtà.

Le versioni consuete ne sono all’oscuro. Alcune traducono qui:

Farai all’arca un tetto e un cubito più sopra la terminerai.

Altre:

Fa’ all’arca una finestra al di sopra, della grandezza di un cubito.

L’ultimo tocco

Infine, ’Elohiym dà istruzioni sulle «basi» della Tebah. Il termine è qui TaḤaT: letteralmente significa «ciò che si è già configurato».

Sono le forme che la lingua può assumere, le sue parole, semplicemente.

"Estenderai le sue basi, a due e a tre". (Genesi 6,16)

Qui, le versioni consuete si riavvicinano un pochino al testo. Alcune riportano: Falla a piani inferiori, secondi e terzi. Altre: La farai a piani: inferiore, medio e superiore. Solo che, nelle versioni consuete, sembrano i ponti di un vascello, e nel XIV secolo a.C. non erano ancora state immaginate navi abbastanza alte da avere tre ponti.

Nella Tebah di cui si parla qui, se le «basi» sono le strutture delle parole, il senso del «a due» e «a tre» diventa facilmente comprensibile.

È un altro omaggio al geroglifico, sia egiziano sia ebraico. Nel geroglifico egiziano, le «basi» delle parole sono i segni bilitteri e trilitteri; e in quello ebraico sono le radici, costituite anch’esse da due oppure tre lettere.

Si intende dire, dunque: «Abbiamo già questa Tebah. È la lingua che stiamo usando (cioè: l'ebraico geroglifico). Chi legge si accorga di quali poteri contiene, e di dove conduca».

La natura della realtà è dialettica: tutto ha base e dinamica plurale. E così dovrà essere anche nella nuova lingua (cioè, si utilizzino le Radici e le etimologie).

Per noi, quindi: nella nostra Tebah del pensiero, nessun concetto può indicare una cosa sola, e nessuna cosa può essere indicata da un solo concetto - a parte gli Archetipi indicati dalle singole lettere "branche".

Riassumendo

Il nome non è solo parola, ma conoscenza dell’essenza → dare il nome significa compren-dere e riconoscere l’intima realtà di una cosa.

Per salvarsi dall'onnipresente diluvio é necessario costruirsi un nuovo linguaggio con vocabolario annesso.

Deve essere un linguaggio che aderisce alla realtà, che la comprende nel senso più stretto del termine.

Ciascuno dei concetti che si useranno in questo nuovo tuo linguaggio avvinghi qualcosa di reale. Non usare parole che bastino a se stesse.

Si constati frequentemente in quale misura una qualsiasi frase sia aderente alla realtà, e la avvinghi, e ne esprima coerentemente qualcosa «da dentro» e «da fuori».

Conoscenza, Concretezza e Condurre Oltre.

Questo linguaggio durerà nel tempo finché permetterà di conoscere.

Si estenderà, nel descrivere i fenomeni, nell’avvinghiarli come la vite, finché sarà aderente a ciò che davvero esiste.

E vale dunque la pena di costruirlo, solo se conduce più in là di ciò-che-c’è-già.

I concetti passati non dovranno determinare i concetti della nostra nuova «lingua» del pensiero.

Nessun concetto può indicare una cosa sola, e nessuna cosa può essere indicata da un solo concetto - a parte gli Archetipi indicati dalle singole lettere "branche".

«Ti accorgerai che questa tua lingua è viva. Non sarà soltanto un codice. Avrà una sua energia, un suo carattere, una sua personalità che ti guiderà, mentre le darai forma»,

Noè (as) 

Il Qur’an parla molto di Nūḥ (Noè, pace su di lui), presentandolo come uno dei primi grandi profeti inviati da Allah all’umanità. La sua figura è citata in diverse sure, con vari aspetti della sua missione.

Noè fu inviato al suo popolo come primo ammonitore dopo Adamo.

"In verità mandammo Nūḥ al suo popolo, ed egli disse: O popolo mio, adorate Allah, non avete altra divinità all’infuori di Lui. Temo per voi il castigo di un Giorno tremendo." (La Lettura, Qur'an, Sura 7:59, La Barriera)

Chiamò il suo popolo per centinaia di anni con pazienza, notte e giorno, in pubblico e in privato, ma fu in gran parte rifiutato.

"E in verità chiamai il mio popolo notte e giorno, ma la mia chiamata non fece che aumentarne la fuga..." (La Lettura, Qur'an Sura 71:5–6, Noè)

I capi e i ricchi dissero che non avrebbero seguito Nūḥ perché solo i poveri lo seguivano.

"I notabili del suo popolo dissero: Noi non vediamo in te altro che un uomo come noi, e non vediamo che ti seguano altri che i più umili tra noi..." (La Lettura, Qur'an, Sura 11:27, Hud)

Quando il popolo continuò a rifiutare, Allah ordinò a Nūḥ di costruire l’arca.

"Costruisci l’Arca sotto i Nostri occhi e secondo la Nostra ispirazione..." (La Lettura, Qur'an, Sura 11:37, Hud)

L’acqua sgorgò e il diluvio inghiottì i miscredenti, mentre Nūḥ e i credenti furono salvati. (Sura 54:11–14, La Luna; Sura 23:27–28, I Credenti)

Uno dei suoi figli rifiutò di credere e non salì sull’arca.

"Nūḥ chiamò suo figlio che era in disparte: O figlio mio, sali con noi e non essere con i miscredenti. Disse: Mi rifugerò su un monte che mi proteggerà dall’acqua. Disse [Nūḥ]: Oggi nulla può proteggere dall’Ordine di Allah, tranne chi Egli ha misericordiato. E le onde si frapposero tra loro, ed egli fu tra gli annegati." (La Lettura, Qur'an, Sura 11:42–43, Hud)

L’arca si posò sul monte Jūdī. (Sura 11:44, Hud)

Allah fece della discendenza di Nūḥ la continuazione dell’umanità:

"E facemmo della sua discendenza i soprav-vissuti." (La Lettura, Qur'an, Sura 37:77, Quelli che stanno in fila ordinata) 

Noè (as) viene presentato come esempio di perseveranza, pazienza e sincerità nella fede.

"In verità fu un servo riconoscente." (La Lettura, Qur'an, Sura 17:3, Il Viaggio Notturno)

È tra gli Ulūl-ʿAzm (i profeti di grande fermezza), insieme a Ibrāhīm, Mūsā, ʿĪsā e Muḥammad (pace su tutti loro). (La Lettura, Qur'an, Sura 46:35, Le Dune)

Il Qur’an mostra Nūḥ come primo grande profeta di avvertimento, che chiamò con insistenza il suo popolo al Tawḥīd (unicità di Allah), ma fu in gran parte rifiutato.

Il diluvio diventa il segno del giudizio di Allah contro chi rifiuta la verità, e allo stesso tempo della salvezza per chi crede.

Quindi il Qur'an conferma che il Diluvio fú ed è reale - come lettura di primo livello.

Il Diluvio Perenne

Perché succede il Diluvio?

Ed ’Elohiym guardò la terra, ed ecco, si abbassava sempre più. (La Scrittura, Torah, Principio, Genesi 6,12)

Le versioni consuete non segnalano questo cambio di prospettiva: traducono il brano sull’«abbassarsi della terra» come se fosse soltanto una tetra eco del giudizio che YHWH aveva dato riguardo ai viventi:

La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta perché ogni essere umano aveva pervertito la sua condotta sulla terra.

Non è così. ’Elohiym vede abbassarsi, sprofon-dare tutta la «terra» – che naturalmente non è il pianeta, o la superficie di un qualche continente: è la «terra»-’aReZ, ovvero tutte le direzioni che gli esseri viventi possono assumere.

Ora quelle direzioni stanno scendendo tutte quante, come in un lento vortice: è iniziata un’involuzione di ciò-che-c’è-già, tutto ha cominciato a essere di meno.

Quante volte è avvenuto a noi, davvero. Quante volte, sfogliando un giornale, si ha la sensazione che stia avvenendo di nuovo.

"E io, ecco, faccio venire la grande piena delle acque sulla terra perché sommerga ogni forma corporea che ha in sé lo spirito delle vite: da sotto ai cieli tutto ciò che è nella terra morirà". (La Scrittura, Torah, Principio, Genesis 6, 17).

«Io» fa venire il Diluvio. In realtà, lo fa sempre.

La «grande piena delle acque» è opera di ’Elohiym: dunque è perenne, come tutto ciò che ’Elohiym fa. Non è avvenimento da attendere, o da cercare negli annali, bensì qualcosa di cui accorgersi.

Qui Noaḥ e il lettore con lui, stanno semplicemente imparando ad aprire gli occhi su ciò che avviene di continuo «sotto i cieli».

È semplice. Ogni «forma corporea» (BaŠaR) morirà – dice ’Elohiym – e verrà sommersa dal MaYM, che è «l’orizzonte tutt’intorno (MM) a ciò che si vede (Y)».

È sempre così: nel Divenire quell’orizzonte non fa che estendersi e mutare, e ciò che vive può mutare soltanto fino a un certo limite, e non oltre. Poi si ferma, e sparisce, morendo. Ma muta di continuo anche prima di morire.

’Elohiym annuncia qui il principio operativo di tale superamento perenne: ed è il suo «io» – il suo ’aNiY, che in geroglifico è:

la capacità (’)

di produrre (N)

immagini, rappresentazioni (Y).

Mutano inevitabilmente i prodotti dell’’aNiY: le immagini che si possono avere di ogni cosa, e il senso di tali immagini.

Quante volte è già cambiato il modo in cui ciascuno di noi vede il mondo, e dunque quanti Diluvi sono già avvenuti in ciascuno di noi?

E quanti non se ne sono accorti; non hanno voluto, non hanno osato accorgersene. E sono rimasti sommersi dai mutamenti avvenuti. Hanno perciò perduto il contatto con la realtà. E vivono oggi sott’acqua. E non lo sanno. Intere nazioni. Intere civiltà. E così è sempre stato.

Accorgersi del Diluvio Perenne è già cominciare a lasciar posto al nuovo, perché chi si accorge che ciò-che-c’è-già sta passando non fa più parte di ciò-che-c’è-già.

La Tebah è tutta in questo accorgersi, dal momento che è una lingua nuova, in formazione – e tutto il nostro universo è fatto in primo luogo di parole, come già sappiamo.

«Vieni ad abitare in questa Tebah», esorta ’Elohiym. Ovverosia: comincia ad adoperare questa lingua nuova che riceve «luce dal futuro», e che è la lingua del tuo io.

Comprendi la realtà attraverso di essa e vivi in ciò che così ne comprendi.

Fa’ che sia la tua lingua e la lingua dei tuoi «figli», e la lingua della tua ’išah – della tua superiore intuizione spirituale – e la lingua delle «crescite» (NeŠeY) dei tuoi figli, e di tutto ciò che vive dinanzi a te, insieme con te.

Il Giudizio (din) 

"Ho perfezionato per voi il vostro DIN, completato su di voi la Mia Grazia, e ho approvato per voi l’ISLAM come DIN."  (La Lettura, Qur'an, Sura 5, verso 3)

Islam è una parola araba che vuol dire "sottomissione a Dio".

Nel Qur'an Allah (swt) ci dice che l'islam è un "Din".

La "sottomissione a Dio" è un "Din".

Etimologia e significato del termine "Dīn"

Radice: د-ي-ن (D-Y-N)
Da cui derivano:
* dāna: giudicare, regolare, rendere conto, dominare
* dayn: debito
* diyyah: compensazione, pena
* madīnah: città regolata da una legge/autorità (es. Medina)
* dayyān: Giudice sovrano, uno dei Nomi di Allāh secondo alcune narrazioni

Quindi "Dīn" racchiude in sé:
* Un sistema di giudizio (con criteri di giusto/sbagliato).
* Una legge a cui ci si sottomette.
* Un'autorità che la emette.
* Una responsabilità e un conto da rendere.

Nelle traduzioni odierne del Qur'an, la parola "din" viene tradotta a volte come "giudizio" a volte come "religione" ma la parola "religione" - ammettiamolo - non vuol dire assolutamente niente!

Se leggiamo "giudizio" ogni volta che nel Qur'an è presente il termine "Din" la nostra comprensione del Qur'an ne risulta migliorata...

1. "Māliki yawmi ad-dīn" (1:4)
"Il Dominatore del Giorno del Dīn"
Qui "giudizio" è chiaramente calzante.

2. "Inna ad-dīn ʿinda Allāhi al-Islām" (3:19)
"In verità, il Dīn presso Allāh è l’Islām"
Qui, se rendi "Dīn" come "giudizio", ottieni:
"Il giudizio presso Allāh è l’Islām"
Il che comunica che l’unico metro per giudicare il vero, il giusto, è l’Islām.

3. Nel verso 3 della Sura 5:
"Ho perfezionato per voi il vostro Dīn"
Tradurre "Dīn" come "giudizio" rende:
"Ho perfezionato per voi il vostro giudizio (modo di giudicare, vedere, valutare la realtà)"
Ed è coerente: l’Islām come visione del mondo giudicata vera da Allāh, non solo "religione" come insieme di pratiche.

L'islam, ovvero: la Sottomissione a Dio è la Visione del Mondo giudicata Vera da Allah...

Non è solo una "religione" (ancora, cosa significa "religione"?!?!) con un insieme di pratiche.

La "sottomissione a Dio" è un modo di "giudicare" la Realtà che è coerente con il Giudizio di Allah (Dio).

La "sottomissione a Dio" è un "giudizio".

L'islam è un din.

"Ho perfezionato per voi il vostro giudizio (il vostro modo di giudicare, di vedere, di valutare la realtà) completato su di voi la Mia Grazia, e ho approvato per voi l’Islam (la sottomissione a Dio) come Giudizio."

L’adorazione vera implica la sottomissione al Suo Giudizio – non a un insieme di rituali, ma a un intero modo di vedere e valutare le cose.

Conclusione

Se traduciamo Dīn sempre come "giudizio", non solo otteniamo coerenza, ma riveliamo una profondità che spesso viene oscurata da traduzioni troppo "teologiche" o influenzate dal linguaggio religioso occidentale.

L’Islām non è solo una "religione", è un giudizio completo sulla realtà.
Una lente, una struttura per comprendere, valutare, scegliere.

Contro la Natura 

Puerile immaginare rivoluzioni, ribaltamenti radicali; ma stupido è rifiutarsi di capire, non denunciare, farsi complici.

Se non possiamo cambiare il mondo cambiamo almeno il nostro sguardo su di esso, la consapevolezza di vivere e il modo di essere al mondo.

Nell'ideologia Neo-Liberista la Natura è uno dei primi ostacoli da rimuovere... E lo sta rimuovendo, passo dopo passo.

Eppure in giro è un tripudio di «bio» e di «chilometri zero», un’orgia di veganesimo, animalismo, fattorie, sapori dell’orto e cibi genuini.

Dietro questa coltre biologica ecosostenibile non c’è la Natura, ma una visione sanitaria, salutista, dietetica.

Anche l’animalismo non è natura ma estensione dei diritti umani agli animali umanizzati.

Perché si parla di ambiente da difendere anziché di Natura?

Perché la Natura è il mondo originario che precede la volontà, la libertà e i desideri; è il principio di realtà che si fa mondo, limite e destino.

La Natura è la realtà che noi non abbiamo creato ma che abbiamo trovato, e non dipende da noi.

La Natura è il regno dei viventi e delle creature come sono nate, e il creato evoca un Creatore, entità soprannaturale; o quantomeno una regina, detta Madre Natura.

La parola "Natura" suscita insofferenza e diffidenza perché è vicaria in terra di Dio.

Per gli esseri umani e per la storia, Natura evoca poi il diritto naturale, che precede ogni altro diritto.

Insomma Natura è destino, e dunque nemica della libertà senza limiti (che è uno dei capisaldi dell'ideologia Neo-Liberale).

Se il cosmo è un intreccio del caos, se la vita sorge e si sviluppa per caso (per come viene creduto nel Neo-Liberalismo) non c’è posto per l’ordine naturale e le sue leggi.

È maledetto il precetto antico, stoico ed epicureo, di vivere secondo natura, perché occorre invece emanciparsi da essa, liberarsi dei suoi limiti.

Viviamo in un mondo, in un'epoca, che abolisce la Natura, o perlomeno la occulta e la scherma.

Vi è come una distanza, un rapporto mediato da uno schermo e infranto dall’atomizzazione sociale: lontananza dalla vita e dalla morte naturale, dal corpo e dal sangue, inclusi i suoi legami e le sue differenze a partire da quella tra maschile e femminile; lontananza dal ciclo vitale e dalla sua parabola naturale, fuga dall’invecchiamento ma anche dall’infanzia e dalla maternità, dalla fertilità e dal parto naturale, dal legame con la terra, dal dolore e dalla bellezza naturale, dalla luce naturale e dagli elementi naturali.

Invece, nell'attuale propaganda Neo-Liberale dettata nell'Europa Unità dai vertici a Bruxelles, all’espressione Natura si preferisce la definizione asettica, neutra, anonima, di «ambiente», che può alludere anche a qualcosa di costruito, di artefatto; può anche essere un capannone, un casermone o un salone, magari con le pareti dipinte di verde per simulare il regno vegetale.

Non c’è distinzione tra ambiente naturale e ambiente artificiale, mentre c’è distinzione tra la Natura e il manufatto, il fabbricato, la costruzione umana.

La ragione principale per cui esiste una retorica mondiale e ufficiale dedicata a salvare l’ambiente ma non c’è una campagna per salvare la Natura, è ideologica e tecno-scientifica, investe la concezione dell’uomo e della vita.

Se dici Natura non puoi prescindere dal riferimento alla natura umana, devi fare i conti con lei, a partire dalla nascita e dalla maternità.

Non si può difendere la natura nelle piante o nell’aria, nell’acqua, negli animali, nel mondo vegetale e in quello minerale e poi non difendere la natura umana, la sua indole, il suo corpo, il suo sangue.

Invece noi oggi viviamo la guerra mondiale contro la Natura e i suoi legami; la natura umana in primis.

In questa guerra mondiale confluiscono i residui delle visioni dominanti nella modernità: quella capitalista e quella tecnoscientista, quella socialista e comunista, quella progressista e transumanista. Più un residuo distorto e secolarizzato del cristianesimo.

Ogni ideologia della modernità sorge da un atto ostile verso la Natura, è il progetto di modificarla fino a liberarsene. A partire dalla natura umana.

C’è una cataratta, un velo spesso, oltre che un’interdizione; insomma una cappa che impedisce di vedere e nominare la natura umana.

La Natura è intesa come schiavitù, invece per gli antichi era il nome della libertà: «Se vivi secondo natura non sarai mai povero», diceva Epicuro e ribadiva Seneca. Non dipendi da altri, oltre il destino. La tua libertà è dentro, non sopra la natura.

L’ambientalismo fanatico difende a spada tratta l’integrità genetica della carota o di un frutto, un ortaggio, dalle manipolazioni ogm; ma guai a obiettare qualcosa sulla modificazione genetica dell’uomo e la sua manipolazione radicale.

L’identità della carota importa più di quella umana; la dignità umana è riposta nella possibilità di negare la sua identità e fabbricarsene una nuova…

L’essere umano, per l’ideologia transgender e transumanista, è ciò che vuole essere e non ciò che la Natura ha fatto in origine.

La libertà va a coincidere con la liberazione dalla natura, anzi con la sua negazione.

Secondo il Racconto Dominante la priorità assoluta e non rinviabile è combattere in difesa dell’ambiente.

In realtà stiamo combattendo la guerra mondiale contro la Natura.

Guerra di liberazione contro i limiti imposti dalla Natura, le sue imperfezioni e le sue dipendenze.

Il tema dei nostri giorni, la bioetica, e quindi la biopolitica (sempre il prefisso bio), investe l’umanità, il mondo, i rapporti tra gli uomini, partendo proprio da una guerra di liberazione dalla natura umana; per un’umanità mutante, in tutti i sensi.

Nella trasmutazione è riposta la libertà.

Non si nasce, ma si diventa; il tempo sostituisce il luogo, lo sradicamento sostituisce l’appartenenza.

La persona non si definisce in base alla sua natura ma in base alla sua volontà soggettiva, essa è ciò che vuole essere al momento, perché può cambiare desiderio.

Se percorrete in veloce rassegna i grandi temi dei nostri giorni che hanno sostituito le tematiche sociali e politiche, vi rendete conto che il convitato di pietra è la Natura: il diritto di cambiare natura, sesso, il diritto alla «genitorialità» (termine neutro) tramite decisione anche singola, la maternità surrogata, l’utero in affitto, la fecondazione artificiale, il diritto di abortire il frutto indesiderato della natura, il figlio; ogni nuovo diritto parte dal rigetto preventivo di ciò che la Natura ha dato.

La libertà è intesa come emancipazione radicale e plurima dalla Natura. Oscurantismo primitivo è restarvi dentro.

Lo stesso diritto di affrancarsi dalla Natura si estende al rapporto con i luoghi di nascita e di vita; e investe i popoli, non solo i singoli.

Ovvero nascere in un luogo è casuale, insignificante, come nascere da un padre e una madre, perché quel che conta è dove decidi di andare a vivere, cosa decidi di essere.

La Natura non vale dunque nemmeno per il legame con i luoghi natii, fatto accidentale, irrilevante, da cui emanciparsi.

La vera linea di confine è tra chi reputa la parola "Natura" , inclusa la natura umana, come un bene da salvaguardare, un fondamento da non cancellare, un punto d’origine da cui partire e a cui tornare continuamente, pur nel corso dei necessari cambiamenti; e chi invece vede la Natura come un carcere da cui evadere e infine abbattere la prigione stessa.

Nel l'utilizzo della parola "Natura" è in gioco la difesa della realtà, dei nostri limiti, delle imperfezioni umane, rifiutando ogni delirio di onnipotenza, ogni pretesa del Soggetto di farsi Assoluto e mutante.

Nel Neo-Liberalismo, la stessa ideologia che vuol salvare l’ambiente incita a superare la natura umana e sancisce che L’essere umano non è ciò che la Natura ha generato tramite i genitori ma ciò che ciascuno vuole essere.

Il soggettivo prevale sul naturale, il desiderio sulla realtà; ciascuno è figlio di se stesso e si sceglie la vita, la morte, il sesso, il corpo.

Non si può tacere davanti al pericolo dell’inquinamento e del riscaldamento globale.

Ma la questione sollevata non è solo un conflitto generazionale, tra i ragazzi previdenti e gli adulti dissennati; riguarda la terra, l’umanità e il loro futuro.

Dicono: stiamo andando verso la catastrofe, verso l’estinzione e l’umanità continua con le chiacchiere inconcludenti.

Il rimprovero sottinteso è che gli anziani la loro vita l’hanno fatta e non si curano del futuro.

Sul clima si sono fiondati pure gli speculatori globali, come Soros o Bill Gates che sul tema sfornano manifesti e business.

Cavalcare l’onda ambientalista dà consensi e pure ritorni di fatturato.

Si elevano monumenti e ministeri alla transizione ecologica. È vero, abbiamo sottovalutato i rischi ecologici: per cecità, fatuo ottimismo, egoismo del presente, per non fermare la macchina in corsa.

Ma i pericoli che corre l’umanità non derivano tutti dal clima e dall’ambiente.

Se la sola cura è per l’ambiente, la storia non serve, la fede non vale, le culture e le identità nemmeno; l’unica mobilitazione valida è per la sopravvivenza ambientale dei «futuri terrestri», senza distinzioni di alcun genere.

Viventi indistinti, ombre senza storia, cultura, identità, religione.

Di tutti i pericoli dovremmo preoccuparci solo di quello climatico: ma questo non è riduzionismo?

Non si riduce così la stessa vita a mera sopravvivenza?

Perché poi tutta l’attenzione per «i diritti dei non ancora nati» si arresta o si distrae davanti al diritto di abortire che cancella una vita futura nel nome della vita presente e dei diritti dei viventi?

Tutelando il diritto di abortire rispetto al diritto di vivere del nascituro, non compiamo la stessa scelta di privilegiare i diritti dei presenti rispetto a quelli dei «non ancora nati»?

Quella strana premura per i nascituri si accompagna a un diffuso rifiuto della maternità, della gravidanza, del mettere al mondo figli, formare famiglie…

L’accettazione della morte come orizzonte della vita è l’unico modo per vivere in libertà, coraggio e dignità, senza paura. Amor fati.

La condizione umana, nel suo «transito terrestre», è comunque la mortalità. In terra non si salva nessuno.

Da tempo ormai si parla di futuro solo per riferirsi al pianeta in pericolo, la terra intesa come ambiente, ecosistema.

L’attesa del futuro, dacché esiste un barlume di coscienza nell’umanità, è sempre stata collegata alla speranza di un cambiamento storico, sociale, politico, economico; un progresso o un miglioramento delle condizioni di vita personali o collettive; o un mutamento spirituale, che in linguaggio religioso si chiama metanoia, parusia, palingenesi, escatologia, cammino di salvezza.

Ora, invece, l’unico modo consentito di pensare al futuro è la difesa dell’ambiente, del pianeta, del clima, dell’aria e dell’acqua; non si mettono in discussione gli assetti sociali, culturali, economici e politici.

Anche il papa avalla il riduzionismo climatico del futuro e si accoda agli appelli dei ragazzi per salvare il pianeta, accusando il capitalismo e il primato del profitto, che peraltro hanno innegabili colpe.

Non può essere il clima la minaccia principale per l’umanità agli occhi di un Pontefice.

Il futuro è inteso come minaccia di perdere le odierne condizioni di vita.

In giro non c’è aspettativa di futuro, a parte quella personale e privata: non c’è traccia di alternativa, si è insecchito pure il petulante leitmotiv di sognare un mondo migliore.

La rinuncia al futuro diventa anche abdicazione in favore dei migranti: gli unici titolari viventi del diritto a un futuro migliore sono riconosciuti in coloro che lasciano le loro terre, le loro famiglie, il loro mondo nell’aspettativa di un futuro migliore.

Loro sono il nostro futuro, noi siamo solo residui del passato che si attardano sulla difensiva prima di essere sostituiti o spazzati via dal collasso planetario, per inquinamento e aridità, denatalità o sovraffollamento.

Siamo disabilitati al futuro e nostro compito è consentire il passaggio di proprietà del pianeta in loro favore.

Si è così sviluppato in Occidente un nuovo mito del buon selvaggio applicato al migrante venuto dall’Africa o dai paesi arretrati: i malvagi in via d’estinzione siamo noi; lui è più vero, più genuino, più vitale, naturaliter generoso e non ancora corrotto dalla civiltà.

Fine della storia, in ogni senso.

Per portare a compimento il messaggio, le fabbriche di opinione stanno costruendo e lanciando nuove giovani testimonial di colore nelle marce ambientaliste in modo da congiungere la lotta per l’ambiente con il tema migrazioni e antirazzismo.

La fabbrica degli idoli partorisce nuovi prodotti per una campagna in apparenza spontanea, in realtà programmata a tavolino e gonfiata dai media.

La denuncia ambientale scatena una gara internazionale d’ipocrisia: non c’è multinazionale, catena d’ipermercati, impresa alimentare, bancaria o assicurativa, che non faccia pubblicità vantando il suo prodotto non per le sue qualità specifiche ma perché ecosostenibile, perché rispetta i protocolli della retorica ambientalista, partecipa alle campagne contro la plastica, alla raccolta volontaria dei rifiuti, al riciclo e al catechismo idrogeologico e atmosferico in versione global.

È solo fuffa, o al più gesto simbolico, per raggirare gli utenti e invogliarli ai consumi con la falsa coscienza di servire la causa nobile del Pianeta da Salvare.

Tra un futuro come minaccia globale per spaventare i cittadini e un ambientalismo ecofurbo per carpire la buona fede degli stessi, è venuta meno l’attesa più autentica dell’avvenire.

Che non riguarda solo il clima ma l’umanità, i sistemi politici, economici e sociali, la giustizia, la condizione spirituale, mentale e morale.

Il progetto globale è fuoriuscire dalla natura umana e sostituire il reale con il virtuale, l’umano con il transumano, il terrestre con lo spaziale; il cyberuomo nel cyberspazio.

Ingegneria digitale, biotecnologie impiantate nell’umano.

Dell’umano si butta via tutto ciò che è identità, eredità, civiltà, umanesimo, biologia, natura e tradizione; ma non si fuoriesce dalle prescrizioni che garantiscono la compatibilità dello sviluppo tecnico con l’ideologia progressista.

L' umanità va snaturata e la natura va surrogata.

Aboliamo la natura, sostituiamo l’uomo e la realtà, però salviamo il pianeta e la buona coscienza eticamente corretta…
(Marcello Veneziani, La Cappa)

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